Hillsborough e quella bugia che divenne verità

Mi chiamo Peter, il Liverpool è la mia vita e quel giorno a Hillsborough io c’ero. Oggi, a distanza di 25 anni, fortunatamente sono qui e vi posso raccontare come andò. Avevo 26 anni in quel maledetto 1989 e facevo l’imbianchino a ore. L’Inghilterra aveva interrotto la sua crescita economica e venivano fuori i lati oscuri e i limiti del thatcherismo. Le fabbriche non esistevano più, il porto di Liverpool era un gigante coi piedi d’argilla e la disoccupazione galoppava. Ad ogni modo, guadagnavo quel tanto che mi bastava per le birre al pub con gli amici, per il gasolio della mia moto scassata e per il biglietto del football. Ogni sabato il mio posto era nella Kop, la curva di Anfield, il cuore del liverpoolismo.

Vivevo ancora con i miei genitori, anche se avevo ormai poco da condividere con loro. Mia mamma aveva cresciuto me e i miei due fratelli, che avevano spiccato il volo verso le loro vite. Io no. Restavo con i miei vecchi per comodità e per necessità. Non avrei mai potuto rinunciare al toast al burro la mattina che mia madre mi faceva trovare puntuale nel piatto. Mio padre, invece, era un militare in pensione. Con le Falkland aveva chiuso la sua onorata carriera, il suo lavoro al servizio della regina. Era un uomo tutto d’un pezzo, pochi sorrisi e molta severità. Non ci aveva mai fatto mancare niente e aveva comprato la casa dove ho sempre vissuto.

Ci sono solo due squadre di calcio nel Merseyside: il Liverpool e le riserve del Liverpool
(Bill Shankly)

La folla schiacciata contro le barriereL’unico vizio che si concedeva era un goccio di brandy nei lunghi pomeriggi grigi di Clubmoor, quartiere working class della periferia di Liverpool. L’unica passione contemplata dalla durezza del suo carattere e del suo lavoro era la squadra di calcio. Ricordo ancora quando mia mamma mi metteva al collo uno sciarpone di lana bianca e rossa, mi dava un bacio sulla fronte e mi abbandonava la mano, consegnandola con raccomandazioni a mio padre. Così percorrevamo a piedi quel paio di chilometri che separava la nostra casa da Anfield Road e prendevamo posto nel Main Stand.
I miei occhi erano tutti per la Kop, quell’impressionante muro rosso che spaventava gli avversari. Erano gli ultimi anni di Bill Shankly, il nostro allenatore, che aveva restituito dignità e successi al Liverpool, prima di lasciare al suo vice Bob Paisley. Shankly era un mito. Fu lui a far affiggere su un muro vicino alla scaletta che portava i giocatori in campo, la targa con la scritta “This is Anfield”. Oggi è ancora lì a intimorire chiunque venga a giocarci.
A metà degli anni ’70, a 15 anni, mi trasferii nella Kop con i miei amici. Da lì ho assistito ai trionfi di Paisley e di Pagan fino alla fine degli anni ’80. Tanti titoli nazionali, ma soprattutto quattro coppe dei Campioni in sette anni, prima della finale dell’Heysel contro la Juventus. Quella notte cambiò la storia del nostro club e forse anche del calcio mondiale. Io non c’ero. Mia madre stava male: un cancro se la stava portando via. Non me la sentii di lasciarla per andare in Belgio. Così vidi la partita in televisione. Una carneficina senza senso che costò 39 vite e comportò la sospensione dei club inglesi da tutte le competizioni internazionali per cinque anni e del Liverpool per sei. Il marchio di assassini non ci avrebbe mai più lasciato.
Il clima era sempre più pesante in patria. Il disagio sociale sfociava spesso nella violenza. Gli stadi erano lo sfogatoio di un’intera generazione cui i governi della Thatcher avevano rubato il futuro e la speranza. La stretta repressiva era dietro l’angolo. Il Liverpool reagì vincendo il double nella stagione successiva ai fatti dell’Heysel: FA Cup e campionato. Poi un altro titolo due anni dopo. Nel 1988-89 il Liverpool è lanciatissimo nella rimonta all’Arsenal in campionato e un calendario favorevole lo proietta in semifinale di Coppa dopo aver battuto Carlisle, Milwall, Hull City e Brentford.

Il documentario della BBC sula tragedia di Hillsborough

Il 15 aprile 1989 è in programma la sfida secca contro il Nottingham Forest. Una partita dal grande fascino visto che in campo ci sono sei coppe dei campioni. A guidare il Liverpool Kenny Dalglish, di là il genio maledetto di Brian Clough, quasi al termine della sua carriera. Come da tradizione, le semifinali di FA Cup si giocano in campo neutro prima della finale di Wembley. Lo stadio designato per Liverpool-Forest è Hillsborough a Sheffield, un paio d’ore da casa. Mia madre non c’è più. Mio padre è vecchio e stanco. Decido di partire con una ragazza e altri amici. La strada per Sheffield è un’unica macchia rossa. I tifosi del Liverpool sono tantissimi, molti più dei biglietti a disposizione. L’organizzazione ci riserva stranamente la Leppings Lane, il settore più piccolo dello stadio di Sheffield, mentre i sostenitori del Forest, in netta minoranza, si accomodano nella Kop. Sì proprio come la nostra curva a Liverpool.
Arrivati nei pressi di Hillsborough, comincia la festa. È una bella giornata, anche se il sole è nascosto dietro a quel velo tutto inglese di nuvole. Attraversiamo il quartiere dello stadio tra le case basse in mattoni rossi. Manca un’ora all’inizio della partita. Ci dirigiamo verso i varchi d’ingresso. Sono solo sei e preferisco entrare in anticipo, mentre gli altri tifosi si attardano a far festa nei pub.

A mezzora dall’inizio della partita, fissato per le 15, sono dentro la Leppings Lane, nel settore 3, quello centrale. I settori 3 e 4, dietro la porta possono contenere solo 2.200 persone. Si scoprirà dopo che in realtà potevano contenerne solo 1600.
La folla schiacciata contro le barriere
Il vetusto Hillsborough non sembra reggere alla folla. La partita sta per iniziare. Mancano 10 minuti e il mio settore è ormai pieno. Davanti a me gli eroi in maglia rossa rientrano negli spogliatoi dopo il riscaldamento. A otto minuti dalle 15, la Polizia decide di aprire il Gate C, un enorme cancello che serve a far defluire il pubblico alla fine della partita. I tifosi, con o senza biglietto, si riversano nel Gate C che, attraverso un tunnel, porta proprio all’interno dei settori 3-4, quelli centrali, quelli già pieni, quelli dove ci sono io. Le squadre sono in campo. Vedo Bruce Grobbelaar posizionarsi davanti a noi. Ma non riesco più a stare in piedi.
Stringo Margaret a me e provo a trascinarla verso i settori laterali, ma una rete li divide da noi. Veniamo schiacciati contro le barriere, rinforzate dopo i fatti dell’Heysel per evitare le invasioni di campo. Alcune persone si fanno sollevare per cercare riparo nella parte superiore della Leppings Lane, altri scavalcano le recinzioni ed entrano in campo. Si continua a giocare, finché la situazione è insostenibile. Cominciano a cedere le barriere, io e Margaret riusciamo a entrare in campo, un poliziotto mi guarda a brutto muso. Non ha capito, nessuno ha capito. All’interno del tunnel che dal Gate C porta agli spalti è una carneficina. Intorno a me vedo volti squarciati dalle reti, vestiti strappati, scarpe per terra, sangue ovunque.
Un poliziotto alle 15.06 entra in campo e costringe l’arbitro a sospendere la partita. Siamo anche noi in campo con i nostri eroi che fuggono verso lo spogliatoio. Restiamo dentro lo stadio per un tempo che mi pare interminabile. Per dare conforto a chi è sotto choc e una mano ai soccorsi. Che sono lenti, che arrivano tardi. Gli ultimi ricordi sono gli elicotteri che ronzano e il ritorno in macchina a Liverpool. Un silenzio irreale, interrotto dal gracchiare della BBC con le ultime da Hillsborough.

I morti saranno 96, oltre 200 i feriti.
Le mancanze di polizia e soccorsi mi sembrano evidenti, così come le pecche organizzative. Ma è qui che va in scena la follia. Forza dell’ordine e Governo con la complicità della stampa costruiscono di fatto un’altra verità. La Thatcher, impegnata nella lotta gli hooligans, parla di “animali”. A Lord Peter Taylor viene affidata l’inchiesta sulla strage. Il suo rapporto, il rapporto Taylor, parla di gravi incongruenze organizzative, di errori della Polizia e dei soccorsi, ma il processo che ne segue si chiude senza individuare responsabili.
La macchina del fango in moto. The lie became the truth, la bugia divenne verità. Il Sun, pochi giorni dopo la strage, ci additò come i veri responsabili, accusandoci di aver aggredito e urinato sui poliziotti, oltreché di aver compiuto atti di sciacallaggio sulle vittime. Una vergogna a uso e consumo della Thatcher e della sua repressione. Ma questo lo abbiamo scoperto solo molto più tardi. Dopo anni di battaglie, dei tifosi reds e dei parenti delle vittime. Dopo 20 anni, nel 2009, David Cameron decise di aprire una nuova inchiesta, lo Hillsborough Indipendent Panel, affidata a una commissione indipendente guidata dal nostro vescovo di allora, James Jones.
Nel 2012 la verità è venuta a galla, con le testimonianze modificate, con i media corrotti, con il disegno anti-hooligans. Ci hanno chiesto tutti scusa. Ma noi andiamo avanti a testa alta. Io e Margaret ci siamo sposati e abbiamo uno splendido figlio di 15 anni. L’ho portato ad Anfield a vedere il Liverpool. L’ho portato anche domenica per la sfida col Manchester City. Spero non mi abbia visto piangere di nascosto durante il minuto di silenzio, subito dopo You’ll never walk alone. Mi chiamo Peter, il Liverpool è la mia vita e quel giorno a Hillsborough non lo dimenticherò mai.

Fonte – ctcn.it

Autore – Ivan Pugliese

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