Intervistiamo

«Le armi della ‘ndrangheta per rapire Moro»

Scritto da Redazione
Le dichiarazioni di Raffaele Cutolo potrebbero illuminare uno dei misteri mai chiariti nel sequestro del presidente della Democrazia Cristiana in via Fani. Quale fu il ruolo delle cosche calabresi?

 

 Le armi usate dal commando delle Brigate rosse per rapire e uccidere il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e falciare i cinque uomini della sua scorta in via Fani, sono uscite dall’arsenale della ‘ndrangheta.

È quanto ha svelato al procuratore Gianfranco Donadio lo storico boss della camorra Raffaele Cutolo, che da mesi sta mettendo a verbale una serie di dettagli sul ruolo della ‘ndrangheta nel delitto Moro. Per il boss – che si è detto disponibile a collaborare solo ed esclusivamente riguardo all’assassino del presidente Dc – per quelle armi la ‘ndrangheta avrebbe ottenuto qualcosa, ma il tutto è da inquadrare nel perimetro di una trattativa criminale ancora avvolta nel mistero erano al corrente anche pezzi deviati dei servizi segreti.

La notizia arriva da Repubblica ed è probabilmente il primo e più visibile risultato del lavoro di Donadio come consulente della commissione. In questa veste, il procuratore ha ascoltato Cutolo nel carcere di Ascoli Piceno, dove il boss avrebbe rivelato: «Quando ero nel carcere di Ascoli Piceno, seppi che, in epoca immediatamente antecedente al sequestro Moro, ci furono ripetuti contatti di membri delle Br con ambienti ‘ndranghetisti al fine di acquisire armi in favore dei terroristi».

Armi da utilizzare per l’assalto in via Fani. Cutolo, le cui dichiarazioni sono tutte da riscontrare, spiega anche che avrebbe potuto salvare Moro: «Avviai delle trattative con i brigatisti in carcere, ma a un certo punto Vincenzo Casillo (il suo braccio destro, ndr) mi disse: leva ‘e mani. Seppi poi che Casillo lavorava anche per i servizi». Un tassello importante, che si incastra con le indagini che negli ultimi decenni hanno svelato l’ombra della ‘ndrangheta nelle ancora oscure circostanze che sono costate il rapimento e la morte del noto politico Dc.

LE RIVELAZIONI DI MARINI Tasselli che per ordine della Commissione, Donadio ha messo insieme, a partire dalle prime – fondamentali, ma per lungo tempo ignorate – indicazioni fornite dal pentito Saverio Morabito. A riportarle alla commissione era stato nel febbraio scorso Antonio Marini, oggi procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, ma in passato più volte titolare dell’accusa nei processi riguardanti il cosiddetto caso Moro.

E proprio in questa veste Marini è stato chiamato a misurarsi con quell’indicazione sulla presenza di Antonio Nirta, detto “due nasi”, che il pm Alberto Nobili aveva strappato al primo grande pentito della ‘ndrangheta al Nord, Saverio Morabito.

«Io – racconta Marini ai parlamentari della commissione – ho approfittato del fatto che in quel momento si stesse parlando della presenza addirittura di un uomo della ‘ndrangheta, un certo Antonio Nirta, in via Fani. Ci era giunta da Milano la dichiarazione di un certo Morabito, il quale aveva detto che in via Fani c’era un uomo della ‘ndrangheta che aveva partecipato insieme con i brigatisti all’agguato. Naturalmente, è stata una notizia che ha fatto scalpore, anche all’interno della compagine brigatista, soprattutto all’interno di coloro che stavano in carcere.

Io sono andato in tutte le carceri, tra cui Opera, e sono andato tre volte da Moretti, il quale mi ha sbeffeggiato, naturalmente. Ha detto che io ero un provocatore e mi ha chiesto come mi permettessi di andare a dire che avevano fatto l’operazione Moro insieme a uno della ‘ndrangheta, a un certo Antonio Nirta. Sono andato a sentire la Balzerani e tutti coloro che avevano partecipato all’agguato di via Fani, eccetto naturalmente Casimirri, che ormai si era rifugiato all’estero ed eccetto Lojacono, che non ha mai voluto parlare e che stava in Svizzera». 

PROVOCAZIONI E SILENZI Interrogatori duri, durante i quali l’allora pm Marini non ha esitato a provocare i brigatisti per tentare di identificare quei personaggi ancora senza volto che avevano partecipato all’agguato di via Fani: «Voi dite così, ma perché non lo venite a dire in aula? Perché non lo venite a dire davanti a una Corte d’assise composta da giudici popolari, che emettono le sentenze in nome del popolo italiano? Perché non venite a dire che voi avete agito da soli, che tra voi non c’erano infiltrazioni, che voi siete “illibati” come dite?».
Provocazioni che se fanno in parte capitolare personaggi di secondo piano come Barbara Balzerani e Anna Laura Braghetti, non convincono a parlare la mente dell’operazione, quel Mauro Moretti che pur essendosi dissociato dalla lotta armata nell’87, non ha mai collaborato con lo Stato. Rimane muto anche Germano Maccari, un altro elemento di rilievo del commando di via Fani, nonostante i ripetuti tentativi di farlo confessare.

«Stanno dicendo che voi avevate degli infiltrati – ricorda il magistrato, ripercorrendo quegli interrogatori –. Stanno dicendo che in via Fani c’era uno della ‘ndrangheta e che in via Montalcini c’era un altro dei servizi segreti. Se voi non dite la verità, allora dovete accettare anche queste cose. Questo li ha spinti, soprattutto le donne, la Balzerani, la Braghetti e la Faranda, più che gli uomini. Io mi ricordo la Balzerani. Era una vipera. La spinta fu più l’orgoglio ferito che la pena scontata.

Qui abbiamo giocato sulla presunta presenza di Nirta. Che significa che ci abbiamo “giocato”, usiamo fra virgolette questa parola? La presenza di Nirta sarebbe stato un fatto gravissimo. Se si fosse accertato quello che aveva detto Morabito al nostro collega Nobili a Milano, sarebbe stato… Noi, però, non l’abbiamo accertato. Abbiamo indagato, abbiamo forse approfittato di questa situazione per costringere i brigatisti a fare un passo avanti e a dire qualcosa in più di quello che avevano detto, ma non l’abbiamo mai accertato». 

GLI UOMINI SENZA VOLTO La presenza di uomini delle ‘ndrine o dei servizi in via Fani è rimasta un dubbio che nessuna indagine è mai riuscita a provare. «Noi – ammette quasi con stizza Marini – non abbiamo mai accertato che a bordo della moto Honda ci fossero due della ‘ndrangheta o due dei servizi segreti». Tuttavia nelle indagini sul rapimento e la morte dello statista è rimasto un buco.

«Ancora oggi – dice il magistrato – il mio grande rammarico è che ci sono ancora due persone che, secondo me, restano impunite, quelle a bordo della moto Honda».

Una presenza senza nome e senza volto di cui c’è traccia già nelle motivazioni della sentenza del primo processo Moro, in cui si legge che c’era una «moto Honda di colore blu di grossa cilindrata sulla quale erano due individui, il primo dei quali coperto da un passamontagna scuro e quello dietro che teneva un mitra di piccole dimensioni nella mano sinistra». Uomini mai identificati ma finiti al centro di un’inchiesta della Procura di Roma, su cui oggi pende una richiesta di archiviazione cui si è opposta la figlia di Moro, rappresentata dall’ex giudice, oggi senatore Ferdinando Imposimato.

Uomini cui anche per Marini è tuttora importante dare un nome perché «è importante se si accerta, naturalmente, che ci fossero persone degli apparati dello Stato a bordo di quella moto, perché allora stava lì per fare l’attentato, non soltanto per coprire, o nel caso in cui si fossero verificate degli imprevisti.

È lì la moto Honda. Questo è un fatto fondamentale, che è stato accertato». Ma i personaggi senza volto non sarebbero solo quelli da più testimoni visti a bordo della moto. Per il pg Marini, «c’è, secondo me, una terza persona ancora impunita, quella che stava a bordo del furgone in cui era stata portata la cassa». Si tratta del furgone su cui – in base alle ricostruzioni emerse in decenni di processi – sarebbe stato trasportato il corpo di Moro, dopo l’esecuzione, su cui mai i brigatisti hanno voluto dare indicazioni. Zone d’ombra rimaste inviolate nonostante decenni di indagini, ma su cui – forse – la parziale collaborazione di Cutolo potrebbe fare luce.

 

FONTE: Alessia Candito

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