Fin da bambina il giallorosso è stato casa mia. Mio padre – che da ragazzo aveva rincorso il pallone da calciatore semi-professionista – e mio zio erano tifosi appassionati: da loro ho respirato la fede per il Catanzaro come si respira l’aria, senza nemmeno accorgermene.
Al liceo, nella provincia, il Catanzaro era la nostra colonna sonora. Tra un’ora di lezione e l’altra, i corridoi si riempivano dei cori della curva, cantati dai miei compagni. In quel canto c’era la nostra identità, la certezza di appartenere a qualcosa che ci univa.
Con me avevo sempre una maglietta e una sciarpa. Due simboli che hanno attraversato la mia vita: prima a Venezia, negli anni universitari, poi all’estero. La sciarpa l’ho donata durante l’Erasmus in Spagna, come si regala un pezzo di cuore. La maglia, invece, non mi ha mai lasciata, seguendomi persino fino a Shanghai, dove ogni volta che la indossavo sentivo di riportare a galla la mia terra.
Rientrata in Italia, vivo al Nord, seguo le trasferte con i club, condivido chilometri e emozioni con amici vecchi e nuovi. E dopo ogni partita c’è sempre lo stesso rito: la telefonata con mio padre. Ci sentiamo per commentare la prestazione, per gioire, per arrabbiarci, per continuare insieme quel dialogo cominciato tanti anni fa, quando ero bambina e lui mi teneva accanto a sé a parlare di calcio e di vita.
E poi ci sono i ritorni in Calabria. Al Ceravolo non manca mai il ritrovo con gli amici di sempre, e con quelli incontrati lungo la mia strada. Ogni ingresso in quello stadio è come rientrare in una grande famiglia.
Ho 43 anni, sono nata in una città della provincia di Catanzaro, ho viaggiato, ho vissuto lontano. Ma i colori giallorossi non mi hanno mai abbandonato. Sono radici, identità, sangue che scorre. Sono il filo che lega me, mio padre, e la mia terra d’origine.
Redazione 24
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