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Sotto le stelle, davanti alla Curva Massimo Capraro

Scritto da Redazione

Il Catanzaro spiegato a una turista scandinava — Capitolo IV

Avevano lasciato l’auto a Piazza Roma, lì dove il cuore della città sembra aspettarti con calma antica. Poi, come due attori di un film d’estate, si erano incamminati lungo Corso Mazzini, mano nella mano.

L’aria era ferma, la città vuota, sospesa tra il tramonto e la notte. I bar avevano già chiuso i battenti, i tavolini spariti, le vetrine abbassate a metà. Ma in quella quiete irreale, tutto sembrava più intimo, più loro.

Ad un certo punto Salvatore la guidò verso destra.
«Ti porto a vedere il Politeama»
Lo guardarono da lontano, nel suo profilo squadrato e moderno, illuminato in modo quasi teatrale, come se anche l’edificio volesse recitare la sua parte.

Tornarono su Corso Mazzini, passando da Piazza Prefettura, che quella sera non era affollata né scenografica. Ma proprio per questo, sembrava più vera.
«Qui ci si incontra, » disse Salvatore, «anche senza dirsi nulla. Basta uno sguardo. O una sciarpa al collo.»

Proseguirono, sfiorarono le luci basse del San Giovanni, poi passarono davanti al vecchio tribunale.

E fu lì che lei vide, nella piazza semibuia, la statua del Cavatore.

Il braccio teso, il colpo che scende sul masso, la pietra che si piega alla volontà dell’uomo. Ingrid restò in silenzio.
Salvatore la guardò e sussurrò:
«È lui il simbolo. Il lavoro, il sacrificio. Lo sforzo di chi si scava la vita con le mani, con la fronte bagnata di sudore. È Catanzaro, Ingrid. È mio nonno, è mio padre, è ogni curva urlata, ogni trasferta fatta. È anche te che cammini con me.»

Da lì, iniziarono a salire.

Senza dire una parola.

Salivano lentamente, come se ogni passo fosse un rito.
Ingrid si fermò a respirare l’aria profumata: erano i gelsomini dei giardini di San Leonardo, che avvolgevano tutto in un odore dolce e antico.

Poi vennero i gradini.
Novantacinque.
Li contarono insieme, uno per uno. Ogni scalino era una storia, un coro, una vittoria sudata, una domenica pomeriggio con il sole negli occhi.

Passarono accanto alla caserma dei pompieri, poi la strada si aprì. E finalmente, davanti a loro, apparve lui.

Il Ceravolo.

Non uno stadio. Ma una cattedrale laica.

Il vecchio muro, le cancellate, i fari spenti che però sembravano pronti a riaccendersi da un momento all’altro.
Tutto era immobile, ma vibrava.

Davanti ai cancelli della Curva Massimo Capraro, il Roks Bar era ancora aperto, con le sue luci basse e le voci di qualche ultimo cliente.
Ma Ingrid e Salvatore non guardavano il bar. Guardavano il tempio.

«So… this is it?» chiese lei in un sussurro.
«Yes. This is everything» rispose lui.

Rimasero lì, in piedi, con il viso rivolto verso la curva. Il vento della sera accarezzava le loro guance. I fari dello stadio, spenti, sembravano occhi chiusi che sognavano.

Salvatore si voltò verso Ingrid.
«Qui ho pianto. Qui ho urlato. Ho abbracciato sconosciuti, ho perso la voce, ho visto gol che sembravano miracoli. E ogni volta ho pensato: non voglio essere da nessun’altra parte al mondo»

Lei lo fissava, con lo sguardo pieno di stelle.
«Bring me here… when they play. I want to see it alive. I want to hear the voices»

Salvatore le accarezzò il viso, poi si avvicinò.
«Tu hai già capito tutto. Anche senza cori. Anche senza partita»

E si baciarono.

Davanti a loro, il Ceravolo silenzioso li guardava. Dietro di loro, la città dormiva. Sopra, un cielo di luglio colmo di stelle, limpido come certi sogni che non finiscono all’alba.

Quel bacio era un giuramento nuovo, inciso non su carta, ma nell’aria calda di Catanzaro.
Un giuramento che diceva:
Da ora in poi, saremo qui. Insieme. Sempre

Immagine elaborata da AI

Harp

 

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