Intervistiamo

Il buco nero della Fondazione Campanella

Scritto da Redazione
I venticinque reparti di troppo. Le leggi ignorate mentre le casse si svuotavano. L’accreditamento inesistente. Storia di un fallimento bipartisan

Il buco nero della Fondazione CampanellaLa fine della Fondazione Campanella era già scritta in un atto mai completato e che ha rischiato di mettere nei guai l’ex governatore Scopelliti.

Il patto di legislatura tra la Regione Calabria e l’Aiop (Associazione italiana ospedalità privata, ndr) è il documento che regola i rapporti tra le casse pubbliche e le strutture sanitarie private. Il suo aggiornamento – finito al centro di un’inchiesta, poi archiviata, della Procura di Catanzaro – conteneva una postilla significativa: per l’anno 2011, il budget di 180 milioni sarebbe stato «incrementato dalle eventuali economie risultanti sul finanziamento assegnato alla Fondazione Campanella».

Rilette oggi, dopo le lettere di licenziamento e le proteste dei dipendenti, quelle poche parole sono più che profetiche: somigliano a un progetto. Iniziato, più o meno consapevolmente, nel 2005.

Quando, cioè, la Regione era governata dal centrosinistra. Va detto a scanso di equivoci, perché la storia del centro oncologico è il paradigma del fallimento di tutta la classe politica regionale.

IL PRIMO PASSO VERSO IL BARATRO Cosa c’entra l’Audiologia con un polo oncologico d’eccellenza? Oppure la Chirurgia plastica? O quella maxillo-facciale? O, ancora, la Neurologia, l’Otorino, l’Oculistica, la Pneumologia e l’Urologia?

L’elenco dei reparti della Fondazione Campanella è molto più lungo di questo. Lo si deve a un decreto del 21 novembre 2005 che trasferisce alcune strutture – in tutto 25 – dalla “Mater Domini” alla Campanella. Dalle strutture collegate all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro al centro in cui, all’epoca, la ricerca calabrese riponeva buona parte delle sue speranze. È un passaggio determinante dal punto di vista finanziario (e anche politico, perché mostra quanto peso abbiano sulle scelte strategiche nella sanità gli indirizzi dell’ateneo): la Fondazione Campanella assorbe strutture che, almeno in apparenza, non c’entrano nulla con la sua mission. Sarà costretta a sostenerne gli oneri finanziari a fronte di un bilancio che si assottiglia anno dopo anno. È un esempio di scuola di come si crea un “buco”.

Mentre in Calabria quasi nessuno bada ai guasti del sistema, a Roma qualcuno si accorge che la spirale si avvita verso il basso (cioè verso il fallimento della struttura). Al Tavolo Massicci, i funzionari dei ministeri della Sanità e dell’Economia per quattro anni mettono in fila una serie micidiale di contestazioni.

La Fondazione Campanella è sempre presente: è la sua essenza giuridica a non convincere. Ma c’è anche un altro particolare. Il Tavolo Massicci non vuole che i suoi costi ricadano sul Fondo sanitario regionale. E non può accettare che i dipendenti, assunti per chiamata diretta quando la Fondazione era un ente di diritto privato (come qualsiasi casa di cura), diventino dipendenti pubblici.

Il primo punto, però, è sempre lo stesso: quei reparti non oncologici devono andare altrove, assieme ai loro costi e ai lavoratori. La struttura regionale che vigila sul piano sanitario recepisce l’osservazione e passa alle vie di fatto. Ne viene fuori un decreto che, finalmente, dovrebbe rimette le cose a posto.

Ogni decreto del presidente della giunta regionale nelle sue funzioni di commissario per il Piano di rientro equivale a una legge. Dunque c’è una legge che risale all’11 settembre 2013 e dispone «il trasferimento delle unità operative non aventi missione oncologica», perché «si pone in contrasto con le disposizioni vigenti in materia di accesso ai pubblici uffici nonché con la normativa contrattuale relativa al comparto degli enti nel Sistema sanitario nazionale». Per essere ancora più chiari, «il rientro delle attività nell’Azienda ospedaliero universitaria è disposto con decreto dirigenziale del dirigente generale del dipartimento Tutela della salute e Politiche sanitarie». Cosa credete che sia successo? Assolutamente nulla. Visto che sbagliare non basta, ma in certi casi c’è bisogno di perseverare, ecco che il trasferimento viene ribadito in un’intesa raggiunta davanti al prefetto di Catanzaro. L’incontro del 1° ottobre 2013 ripropone la soluzione già decisa per legge: «Le unità operative a direzione universitaria, non oncologiche, della Fondazione Tommaso Campanella, già individuate nel verbale d’intesa dello scorso 26 giugno, rientrano entro il 30 ottobre 2013 nell’Azienda ospedaliera “Mater Domini”».

Di nuovo, i mesi passano senza cambiamenti sostanziali. E ne trascorrono nove (o dieci, se il calcolo comincia da settembre) senza che quei reparti in più, che gravano sul dissestato bilancio della Fondazione, si muovano. Dieci mesi significano altri milioni di euro spesi per sostenere aree che nulla hanno a che fare con l’oncologia. E che, secondo il Tavolo Massicci, non avrebbero neppure dovuto stare lì. Le scelte del 2005 producono effetti anche nel 2013. E chi dovrebbe intervenire per riparare i danni lascia tutto com’è. È in questo circolo vizioso che si cristallizza il flop della politica, mai abbastanza “coraggiosa” da restituire quei 25 reparti all’Azienda ospedaliero-universitaria di Catanzaro. Pare che ora sia la volta buona. Il decreto è pronto, il direttore generale del dipartimento Tutela della Salute lo ha firmato: manca soltanto che diventi operativo. È così che la Calabria risolve un problema: ignora le leggi che scrive e ci mette dieci mesi per firmare un decreto che si poteva completare in dieci minuti. Sono i mesi nei quali la situazione della Fondazione è diventata assai precaria e il futuro dei suoi dipendenti ha perso prospettiva. Il rischio è un disastro sociale.

IL TIMONIERE STRABICO Nell’elenco dei colpevoli non si può trascurare la politica, che è stata un timoniere strabico: ha scelto manager fedeli e accelerato l’avvicinamento al precipizio. La storia della Campanella è legata (anche) a un paio di cult televisivi.

Il primo è l’intervista a Report nella quale il dg Antonio Belcastro, al giornalista che chiedeva quale fosse l’attività di ricerca del centro, riuscì a rispondere che la ricerca si faceva perché «abbiamo visto i topolini e, a me, tra l’altro, dispiace». Belcastro, voluto dai fratelli Gentile al timone della sanità cosentina e chiamato da Loiero al vertice del polo oncologico, è un altra prova vivente di consociativismo sanitario: un manager per tutte le stagioni. Infatti è il direttore generale della “Mater Domini”.

Perfettamente bipartisan pure Anselmo Torchia: presidente della Fondazione ai tempi del servizio di Report, lo era ancora qualche mese dopo, quando le telecamere de La 7 lo immortalarono mentre teneva un incontro elettorale al quale partecipavano molti dipendenti della “Campanella”, molti “suoi” dipendenti.

Quasi tutti con un contratto appeso ai chiari di luna elettorali. Torchia, però, non aveva deciso di scendere in campo con il centrosinistra che lo aveva nominato, ma con l’Udc. Se si passa dalla politica è più facile governare il futuro della ricerca oncologica in Calabria.

Lo ha fatto pure un altro dei direttori generali designati negli ultimi anni: Sinibaldo Esposito, uomo di fiducia del senatore (e già assessore regionale all’Urbanistica) Piero Aiello e vicesindaco di Catanzaro. Ce ne sarebbe abbastanza per dimostrare che il sodalizio sanità-partiti non funziona. Eppure si va avanti a suon di assunzioni senza concorso e promesse di inquadramento nei ranghi del servizio pubblico. Il solito ritornello: è stonato, ma produce consenso. E pure qualche atto anomalo.

SENZA ACCREDITAMENTO Uno è particolarmente fuori dai canoni: la Fondazione ha lavorato anche se era priva di autorizzazione all’esercizio e all’accreditamento. Un fatto che emerge da una delibera (la numero 1235 dell’11 agosto 2009) dell’Asp di Catanzaro.

Delibera che riporta il risultato di una visita ispettiva disposta dall’Azienda sanitaria. Il risultato è un «parere non favorevole al rinnovo dell’autorizzazione all’esercizio e all’accreditamento della struttura sanitaria privata denominata “Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori “Tommaso Campanella”». La bocciatura, basata su una serie di «non conformità formali», non ha evitato, successivamente, il tentativo di conferire l’accreditamento alla Campanella in quanto struttura di “sperimentazione gestionale” o, addirittura, di considerarlo un passaggio «automatico» e un «falso problema», espressione usata in un verbale della commissione paritetica che risale al 14 maggio 2013. Un «falso problema» che, però, l’Asp di Catanzaro si era posta mandando un gruppo di esperti a ispezionare la struttura.

LA RICERCA INTERROTTA Per “salvare” l’idea della Fondazione bisognerebbe anche dimenticare i rilievi contenuti nella relazione Riccio-Serra. Che esprimeva, nel 2009, dubbi «circa le collaborazioni internazionali che l’ente intrattiene con analoghi centri di ricerca e cura di carattere scientifico esteri».

I due prefetti che hanno firmato il report sottolineano che i dati trasmessi sono poco significativi: «Un elenco di istituzioni o professionisti con relativi numeri di telefono, senza indicazione alcuna circa le sperimentazioni nazionali e internazionali alle quali partecipa la Fondazione. Peraltro – si chiude così il paragrafo sulla ricerca – tutte le informazioni provenienti dalla direzione della Tommaso Campanella sono apparse alla commissione insufficienti ed elusive».

Questo aspetto del problema ci riporta indietro di qualche anno, alla genesi dell’idea. O alla promessa mancata, a seconda dei punti di vista. Nel 2004, una delibera di giunta prevedeva la richiesta, da parte della Fondazione, del riconoscimento come Irccs (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) entro i successivi tre anni. Com’è andata a finire? Malissimo, dato che la domanda è stata avanzata con grande ritardo e, in ogni caso, il ministero l’ha respinta a causa dell’esigua documentazione trasmessa e mai integrata nonostante le richieste arrivate da Roma.

I FAVORI ALL’UNIVERSITÀ È una continua promessa, questa fondazione che avrebbe dovuto rivoluzionare la medicina calabrese. La promessa ha portato qualche vantaggio all’Università di Catanzaro, che ha riversato nella Campanella 25 reparti senza vedere ridimensionato il proprio finanziamento “storico”.

I fondi concessi all’ateneo dal protocollo, ormai scaduto, firmato con la Regione prevedono un’erogazione di risorse basata sul numero dei posti letto e non sulla “produzione”. Questa è, invece, il criterio privilegiato dal nuovo protocollo, recepito con un decreto del commissario per il Piano di rientro e mai sottoscritto dalle parti, probabilmente perché taglia gli stanziamenti a favore dell’ateneo.

Che, invece, con la proroga del vecchio accordo, sono paradossalmente aumentati. Succede perché i 50 milioni che prima venivano assegnati per 150 posti letto, adesso finiscono nei forzieri dell’accademia anche se i posti sono diventati 111. Condizioni favorevoli, insomma. E lo sono ancor di più se si pensa che i reparti trasferiti nel 2005 sono rimasti alla Campanella – assieme ai costi che si portano dietro – per almeno dieci mesi di troppo, anche se una legge regionale diceva il contrario. ) 

(Questo servizio è stato pubblicato sul numero 162 del Corriere della Calabria

Pablo Petrasso

p.petrasso@corrierecal.it

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