C'era una volta...

L’angelo del fango

Scritto da Fabrizio Scarfone
Ricordo di Angelo Mammì a dieci anni dalla morte

…mi misi a girare attorno al campo, a braccia tese come se dovessi urlare, ma dalla mia bocca non usciva un solo suono…

Angelo Mammì

 

Sono giorni difficili, quasi impossibili. Pusher senza dignità e memoria spacciano per Catanzaro qualcosa che non lo ricorda affatto. E non perchè il Catanzaro abbia un passato di sole vittorie, milioni, trofei e trionfi. No. Il Catanzaro sta nel volto baffuto e per nulla aristocratico di Massimo Palanca, nello spareggio di Bari, nel fiuto di Ceravolo, nel tuffo “rasoterra” di Angelo Mammì a quattro minuti dalla fine.  Nel calcio che ha l’adorabile difetto di credersi metafora, il Catanzaro – e non stateli a sentire i cortigiani del nulla che vorrebbero barattare tutto quello che è stato con il concerto di una popstar – è diventato simbolo. Quel 30 gennaio del 1972 il Catanzaro batte la Juventus e l’emigrato operaio di Mirafiori entra in fabbrica a testa alta. Si sente ambasciatore di quella squadra che alla fine del campionato retrocederà pure, ma che comunque ha lottato e lotterà ancora per rialzarsi dopo ogni caduta. La mamma di quel ragazzo, che aveva pianto “stendendo” la pasta fresca e pensando a suo figlio lontano dallo stadio in quel memorabile giorno, piange ancora. Tiene l’orecchio attaccato alla radio, e lo sa che il prossimo turno in catena di montaggio non sarà come tutti gli altri, per il suo bambino. I calabresi hanno finalmente il loro riscatto, che poi è solo una lezione: la dimostrazione che tutto è possibile. Ecco, forse è per questa ragione che forze oscure e miserabili tengono il nostro Catanzaro ai margini di tutto ciò che conta: la squadra di quegli anni, oggi, sarebbe rivoluzionaria.

Fabrizio Scarfone

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S’intitola Diagonale imparabile all’ultimo chilometro (Laruffa editore). L’autore è Enzo Romeo, vaticanista e caporedattore dei servizi esteri del Tg2. Scegliamo di  ricordare con queste parole il nostro Angelo Mammì, nel decennale della sua scomparsa.

 


Quella domenica però la questione non era scegliersi il posto, era rimediarne uno, uno qualunque. I biglietti delle pre-vendite erano stati esauriti dalla settimana prima e bisognava fare la posta fin dal mattino davanti ai botteghini dello stadio, sfidando il vento freddo e gli scrosci d’acqua gelida, con la speranza di portarsi via gli ultimi tagliandi. Era il 30 gennaio del 1972 e, a Catanzaro, arrivava finalmente la Juventus. Molti di noi avevano il cuore diviso: da una parte l’affetto e l’orgoglio per il Catanzaro, dall’altra la fede per la Juve, quella che scegli da bambinetto, quando prendi dal mazzo la squadra più forte da tifare, sapendo che tanto non ne avrai mai una davvero tua. Comunque nessuno quel giorno al Militare ebbe il coraggio di gridare «Forza Juve!», il pubblico era un’onda schiumosa che si infrangeva contro la recinzione del terreno di gioco, un magma ribollente e tracimante, con gli ombrelli che si agitavano esultanti come bandiere o minacciosi come clave a seconda delle fasi della gara.

Il campo era ridotto a un pantano. Ceravolo aveva dato una mano a Giove Pluvio facendo annaffiare il manto erboso già zuppo di pioggia. Quando, tempo dopo, Boniperti accusò Ceravolo di aver allagato di proposito il campo, l’avvocato (quello catanzarese, intendo, con la “a” minuscola) rispose: «Ebbene sì, per una volta abbiamo dimostrato di essere più furbi di voi!». Si trattava di livellare il tasso tecnico tra le due squadre, cosa impossibile in condizioni normali. In quella risaia invece il Catanzaro riuscì a contenere la Juventus e il suo trio d’attacco Causio-Anastasi-Bettega, mantenendo il risultato sullo 0 a 0 in vista del fischio finale.

Poi, a sei minuti dalla fine, avvenne l’imponderabile: «Rete! Ha segnato il Catanzaro, colpo di testa di Mammì! La folla è in delirio!». La voce di Ameri uscì dalle radioline appostate in tutti gli angoli della Calabria e trapanò di gioia le orecchie degli ascoltatori increduli. Un tifoso entrò nella cabina del cronista e urlò a tutta Italia «Gooool!», prima di essere buttato fuori da quelli di Tutto il calcio… Altri mille e mille «Gooool!» si aggiunsero al primo, si inseguirono, si sovrapposero. Gridarono «Gooool!» anche quelli che erano entrati allo stadio da juventini e che ora si riscoprivano calabresi e ballavano la tarantella insieme a tutto il pubblico che gremiva gli spalti.

Cos’era successo? Questo: Braca aveva calciato un calcio d’angolo dalla destra, un tiro sporco con la palla che aveva toccato terra proprio sulla linea dell’aria piccola. Elettrizzato dal gesso e dall’erba bagnata, il pallone era schizzato davanti alla porta e qui era sbucato un meridionale piccoletto di nome Angelo Mammì, classe ’42, da Reggio Calabria, altezza 1,70. Un attaccante che non segnava più da mesi e che per l’occasione s’era inventato un tuffo quasi rasoterra, andando a colpire tra la testa e il collo prima di finire nel fango. «Ricordo solo un gran boato – dirà anni dopo – e quando mi alzai avevo scoperto di aver fatto il goal più importante della mia vita». Il pallone era finito, imparabile, all’angolino della porta di Carmignani e Mammì, l’Angelo del fango, volava in trance verso il centro del campo, poi cambiava direzione e correva verso la curva, le mani sempre alzate, il numero dietro le spalle cancellato dalle macchie di quella melma benedetta. Lo inseguivano fotografi, raccattapalle, compagni di squadra. Dovettero scuoterlo per riportarlo nella sua metà campo e completare quello scampolo di magica partita. Lui, il piccolo attaccante, avrebbe forse preferito non svegliarsi e rimanere a godere per sempre quel momento di gloria.

Ma si sa, la magia dura attimi, poi la realtà riprende il sopravvento. In quella stagione 1971-72 il Catanzaro retrocesse e tornò in serie B; la Juventus vinse lo scudetto. Quanto a Mammì, non ebbe altre occasioni per volare sul fango: finì per fare l’istruttore della scuola calcio nel convento di San Francesco, a Nocera Inferiore, e l’allenatore della Sangiuseppese, prima di morire a 58 anni nella sua casa di Pagani, in provincia di Salerno. 

Autore

Fabrizio Scarfone

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