Serie B…evute per Ascoli – Catanzaro

Seconda puntata della rubrica curata da Nicolò Ditta

C’è un filo che lega Trieste ad Ascoli.
A prima vista sembra nulla, ma qualcosa, a ben guardare c’è. La passione per il
caffè.
Il Caffè Meletti è uno dei 150 caffè storici d’Italia.
Oltre che per la bellezza dell’edificio, questo caffè, in stile liberty, che si
affaccia su piazza del Popolo – il “salotto” della città – è particolarmente
caro agli ascolani per essere sempre stato il luogo di incontro mondano e
culturale per eccellenza, un salotto nel salotto.
I tavolini rotondi in marmo bianco di Carrara e piede in ghisa, le sedie
viennesi, i divanetti di velluto, le decorazioni dei soffitti, le grandi
specchiere, le colonnine, tutti elementi realizzati secondo il gusto
dell’epoca.

Ecco che un caffè può essere il punto di partenza per un’altra bella giornata
di sport e di divertimento per unire la passione per il magico a un nuovo modo
di essere tifosi da trasferta.
Andare in altre città non solo per vedere la partita ma anche per visitarle,
per conoscerle ed apprezzare quanto di meglio queste offrono.
In questo Trieste è, e resterà, una pietra miliare, una tra le trasferte più
belle che abbia mai fatto.
La bellissima e aristocratica Trieste ci ha accolti in maniera splendida nel
cinquantesimo anniversario della sua annessione all’Italia.

Ma ormai quella trasferta fa parte dei nostri ricordi. Il futuro ci parla di
un’altra trasferta, un’altra “battaglia” da combattere e, speriamo, da vincere
sul campo; e di un’altra “battaglia” da vincere con il tifo sugli spalti. Gli
scontri, quelli fisici, li lasciamo volentieri alle altre tifoserie.

Passiamo da 1246 km a “soli” 84 km di trasferta dalla “seconda città
dell’impero”: Camerino.
Chissà se la vicinanza dalla città di O’Rey ispirerà i nostri attaccanti
rimasti a secco nella trasferta giuliana.

La storia di Ascoli ci parla di una serie di dominazioni che si sono succedute
nel tempo, e hanno ovviamente lasciato la propria influenza sulla città.
La sua importanza è dovuta alla sua posizione geografica, il passo di Torrita,
su cui sorge, era uno dei più facili punti di attraversamento dell’Appennino
centrale.
La città controllava, quindi, la vasta area del Medio Adriatico tra Marche e
Abruzzo a partire dal IX sec. a.c. fino all’intervento espansionistico romano.
Ascoli Piceno (Asculum) entra in contatto con Roma come conseguenza dei
commerci che avvenivano lungo quella che sarebbe poi diventata una delle vie
consolari, la Salaria, che collegava il versante tirrenico con quello
adriatico.
Dopo la vittoria dei Romani (89 a.C.) e il sacco della città, Ascoli rinasce e
sotto l’imperatore Augusto si arricchisce di ville, templi, teatri, terme,
strade, ponti e fortificazioni.

La città ci parla anche di una forte presenza della chiesa cattolica con la
presenza di San Francesco che lascerà un importante segno nella città.
S. Francesco giunse ad Ascoli nel 1215, poco tempo si formò una comunità
numerosa che nel 1258 dette vita alla grandiosa fabbrica in piazza del Popolo e
che divenne uno dei più importanti centri francescani.

Un particolare salta agli occhi guardando la città dalla tangenziale che ci ha
portato all’appuntamento con la serie B quel 16 maggio, le torri che sorgono in
città.
Simbolo di potenza e prosperità, venivano erette dalle famiglie più importanti
della città a simbolo della propria ricchezza e del proprio potere.

Oggi la realtà è ovviamente cambiata, e in città prosperano varie botteghe
artigiane che producono ricercate maioliche, i laboratori di ceramica
costituiscono, oggi, un interessante itinerario culturale per conoscere la
città sede, anche di un’altra tradizione molto particolare, quale quella dei
liutai, e del ferro battuto.

Un itinerario culturale non è completo se non abbinato ad un itinerario
eno-gastrnomico.
Non possiamo non iniziare dalla specialità che più di ogni altra caratterizza
Ascoli nel mondo, le olive ripiene all’ascolana.
Questa la ricetta del Sindacato Ristoratori di Ascoli Piceno
1 kg di olive verdi
200 gr di carne di suino
100 gr di carne di pollo
300 gr di vitellone o manzo
150 gr di parmigiano reggiano
cipolla, sedano, carota, 1 dl. di vino bianco, 4 uova, pane grattugiato,
farina, olio extravergine di oliva per la frittura.

Preparazione dell’impasto
Rosolare la cipolla, la carota e una costa di sedano tagliati a dadini in olio
extravergine di oliva.
Aggiungere le carni tagliate a tocchetti, quando saranno ben rosolate unire il
vino bianco.
A cottura ultimata passare il tutto nel tritacarne e legare l’impasto con le
uova, unire il parmigiano grattugiato e la noce moscata.
Preparazione delle olive:
Sciacquare le olive provenienti dalla salamoia in abbondante acqua corrente
(per dissalarle) ed eseguire un taglio elicoidale della polpa a partire dal
punto di attacco con il picciolo.
Farcire le olive denocciolate con l’impasto e passarle in farina, uova e pane
grattugiato. Friggerle in olio extravergine di oliva.
Da servire rigorosamente calde.

Cosa abbinare a queste olive.
In questo la provincia di Ascoli e le Marche offrono un’ampia possibilità di
scelta.
Possiamo ovviamente partire da un bianco fresco con una buona dose di acidità
per contrastare il caldo delle olive e il grasso della frittura.
Pensiamo, ad esempio, a un “Falerio dei colli ascolani”.
È un bianco semplice prodotto in prevalenza da uve Pecorino, Passerina,
Trebbiano e Verdicchio, con piccole aggiunte, a volte, di Sauvignon blanc.

Altri vino che possiamo considerare sono sicuramente i celeberrimi “Verdicchio
dei castelli di Jesi o di Matelica”.
Prodotti dalla omonima uva, in purezza o con piccole aggiunte di Trebbiano o
Malvasia Toscana, sono vini che danno differenti risultati a seconda di come
sono fatti.
Potremo avere un vino semplice, da tutti i giorni, con i tipici profumi di
biancospino, mela ed erba fresca, se non subisce molti trattamenti.
Oppure potrà diventare un grande bianco con grossa struttura, e profumi
terziari evoluti, se subisce un periodo di permanenza, più o meno lungo, in
botti di rovere.
In questo caso può anche invecchiare qualche anno, così sfatiamo il mito che i
vini bianchi debbano essere bevuti giovani.
Per capire l’importanza anche economica di questo vino si pensi che ne sono
prodotte alcuni milioni di bottiglie.

Dell’aperitivo, con le olive all’ascolana abbiamo parlato, ma cos’altro prevede
un pranzo ascolano che si rispetti?
La tradizione, e la memoria rurale, ci suggeriscono la coratella d’agnello, con
uova oppure con pomodoro e peperoncino, gli squisiti fegatini di pollo, ma
anche, soprattutto a pasqua, la pizza al formaggio con i tipici salumi della
zona.
I primi sono il regno delle paste all’uovo: le tagliatelle, i maccheroncini di
Campofilone, la pasta alla chitarra; condite rigorosamente da rigaglie di pollo
al sugo.
In alternativa, come prima portata, le zuppe legate alle economie di montagna,
a base di cereali o legumi: zuppa di farro, di lenticchie, di fagioli, oppure
quadrucci e ceci.
Sono questi piatti che mostrano un antico e consolidato attaccamento alla terra
e alle tradizioni contadine di quelle zone.
Un piatto merita cenno, i “Vincisgrassi”, si tratta di un piatto molto ricco,
lasagne condite da un ragout di carne, fegatini di pollo, funghi, besciamella e
un po’ di pomodoro. Sicuramente adatto a chi sta a dieta…

Un secondo piatto, che è anche simbolo della cucina locale, è il fritto misto
all’ascolana: olive farcite (tornano anche qui), crema, zucchine, carciofi e
costolette d’agnello. Ma non possiamo dimenticare agnello alla brace, coniglio
o pollo in padella. (ancora una volta ritornano i piatti semplici ma nutrienti
della povera cucina dei contadini.
Ovvio abbinamento per questi piatti i grandi vini rossi tipici: il “Rosso
Piceno” e il “Rosso Conero”.

Il Rosso Piceno nasce da uve Montepulciano (minimo 60%) e Sangiovese.
È un vino che non ha grandissima struttura come il Rosso Conero, ma è più
delicato e “bevibile”.
Va bevuto giovane: tra il primo e secondo anno, ma sopporta bene piccoli
invecchiamenti di qualche anno.
La zona di produzione si estende da ancona verso sud, fino ad Ascoli Piceno.
Piccola “variante” di questo vino è il Rosso Piceno Superiore, prodotto tra
Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto, prevede l’uso delle stesse uve del
Rosso Piceno, ma con l’aggiunta di un massimo del 15% di uve bianche, Trebbiano
e Passerina.
Si tratta di un vino ancora più delicato e morbido, molto piacevole da bere
adatto a tutto pasto.

Il Rosso Conero prende il nome dall’omonimo monte Conero che sorge a sud-est di
Ancona prodotto da uve Montepulciano in purezza o in uvaggio con una piccola
parte di Sangiovese.
È un vino di grande struttura e destinato all’invecchiamento.
Il periodo di invecchiamento in botti rende questo vino un compagno ideale a
piatti ricchi, grassi e succulenti tipici della tradizione locale.
Un vino che ha dei tannini molto importanti che necessitano di un certo
invecchiamento prima di poter essere apprezzati.

Ancora una volta sfatiamo il classico detto pesce-vino bianco.
E’ consuetudine nella città dorica abbinare il Rosso Conero, in questo caso una
bottiglia non eccessivamente importante, con lo stoccafisso all’anconetana.
A condizione, però, che il vino sia profumato, appena maturo, per contrastare
la salsa ricca di profumi e aromi, di olii extravergini di oliva e di umori.

Concludiamo con il dolce, il popolarissimo ciambellotto, i biscotti secchi e i
pandolci, e i ravioli fritti, ripieni di castagne oppure crema o anche ricotta,
la cicerchiata, il “Frustingu”

La produzione di vini delle marche è composta da realtà ben distinte tra loro,
ma tutte egualmente particolari e con loro precise caratteristiche.
In questo, ritornando all’abbinamento con le nostre fumanti olive all’ascolana,
non è detto che anche un rosso giovane e fresco, che non abbia fatto legno, e
servito relativamente fresco, non è detto che non ci stia bene.

C’è una piccola produzione (circa 3.000 bottiglie) di Vernaccia di Serrapetrona
molto interessante.
L’origine del nome della città è dovuto all’altitudine della zona in cui sorge,
in posizione collinare eleva.
Quel nome – Serra in latino – è per noi comprensibile se pensiamo alle “Serre”
della nostra amata regione.
La seconda parte del nome, è un richiamo a Petronio, Santo vescovo di Bologna,
che si spiega con la forte presenza, sul territorio, di ordini monastici cui
abbiamo accennato prima.
L’origine del nome “Vernaccia” si deve al latino “vernaculum”, ovvero “locale”,
nostrano. La produzione della Vernaccia risale al xv° sec.

La prima lavorazione pare si debba all’abitudine dei monaci di riservare parte
dei grappoli di vernaccia nera all’appassimento per ottenere un prodotto più
concentrato.
La tradizione vuole che nel medioevo un capitano polacco, passando per
Borgiano, scoperta la bontà della Vernaccia, esclamasse: « …Domine, Domine,
quare non borgianasti regiones nostras? » ovvero Signore, Signore, perché non
hai fatto le nostre terre come Borgiano? (piccolo comune frazione di
Serrapetrona).

La Vernaccia di Serrapetrona dal 2003 ha ottenuto la D.O.C.G.. È un vino da
“dessert”, gradevolmente amarognolo, con gradazione minima di 11,5%; va servito
a temperatura ambiente, o leggermente fresco.
La vendemmia della Vernaccia avviene qualche mese dopo quella delle comuni uve,
verso la fine del mese di ottobre o i primi di novembre.
Al “vitigno-base”, appunto la Vernaccia, si possono aggiungere altre uve come
il Sangiovese, Ciliegiolo e Montepulciano, da sole o congiuntamente.

Il processo di fermentazione è duplice. Parte dell’uva viene fatta fermentare
subito, il restante 40 – 60 % viene lasciato ad appassire fino a dicembre, e
poi assemblato al resto delle uve.
La zona di produzione è molto piccola, e limitata a tre soli comuni dell’alto
maceratese.
La vernaccia è generalmente spumantizzata secondo il metodo charmat, ma abbiamo
anche interessanti casi di versione “ferma” da invecchiamento (ovvero non
spumantizzata), generalmente abbinata a carni o a salumi.

Quanto meno un cenno meritano le altre produzioni vinicole della regione:
Lacrima di Morro d’alba; vino rosso prodotto da uve Lacrima, che può abbinarsi
anche a qualche piatto di pesce. Da bere sicuramente giovane e nelle versioni
amabile e frizzante va benissimo come vino da fine pasto
L’Esino; si tratta di vini bianchi e rossi che devono essere bevuti giovani, a
base Verdicchio o Sangiovese e Montepulciano. Classici vini da ogni giorno.
I Collipesaresi, è un vino rosso a base sangiovese prodotto nella zona nord
delle marche nei dintorni di Pesaro. Esiste anche una versione bianca del vino
a base di Trebbiano che localmente viene chiamato Albanella.
Il Bianchello del Metauro è prodotto nella parte centro settentrionale della
regione, il vitigno usato è l’omonimo Bianchello, altrimenti detto Biancame o
Greco di Bianchello. È forse il vino più semplice tra quelli prodotti, nella
regione e quindi abbinabile a piatti poco strutturati, ma molto piacevole
specie se servito ben freddo, ottimo da aperitivo per le sere d’estate.
Il Collimaceratesi; è un altro vino bianco prodotto da uve “maceratino” con
l’aggiunta di altri vitigni migliorativi.

Un’antica tradizione dell’intera regione è la produzione del vino cotto. Un
modo come un altro di conservare il vino e tramutarlo in alimento per i
contadini e i pastori che andavano a lavorare nei campi, che avevano bisogno di
un alimento rinvigorente e corroborante. Lo stesso veniva e viene usato come
ingrediente per la produzione di dolci. Ultimo cenno riguarda, poi, l’anisetta.
Prodotta in città, è una bevanda amata dalle persone che la apprezzano.

Ma ora brindiamo, in alto i calici e buona
Serie B…evute!
Nicolò Ditta

Autore

Redazione

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