Dalla Redazione

Una malattia che non va più via

Dal weekend umbro un’altra storia di passione per la maglia gialla e rossa del Catanzaro

C’è qualcosa di misterioso nell’essere tifosi del Catanzaro. Ne abbiamo parlato tante volte. In quella maglia gialla e rossa c’è quel senso di appartenenza alla città, ad una comunità vasta sparsa in giro per il mondo. Quella maglia gialla e rossa lenisce la diaspora catanzarese. Sugli spalti dello stadio di Carrara o tra le pareti di un pub a Milano, in un ristorante a Sorrento o su UsCatanzaro.net. Davanti al “Ceravolo” o su Corso Mazzini.  Ogni tifoso con la sua idea di calcio, con il suo modulo tattico, con il suo calciatore preferito, con il suo consiglio da dare al presidente Cosentino.

Un sottile filo (giallo) rosso lega generazioni di catanzaresi. Oggi sugli spalti trovi il professore dai capelli bianchi che ti racconta quel rigore regalato alla Roma di Di Bartolomei. E trovi quel giovane ultrà, solo un po’ meno incosciente, che ricorda la traversata per Olbia o le strade di Giugliano.

Un giorno anche Matteo, Valerio e Roberto racconteranno ai più giovani di questi due giorni in Umbria. Della spinta magica e misteriosa che ti porta a spendere 10 euro per vedere una partita tra ragazzi a Foligno, a entrare in cinque allo stadio e cantare per 90 minuti sotto la pioggia, solo perché 11 dei 22 “Berretti” in campo portano quella maglia gialla e rossa. E ti spiegheranno quale emozione ti assalga ad ogni incontro, ad ogni stretta di mano, ad ogni sorriso coi baffoni larghi, regalato da Massimo Palanca, l’uomo che più tiene legato quel filo giallorosso, il più illustre ambasciatore di Catanzaro nel mondo.

Ti racconteranno delle scorribande tra le curve dell’Umbria, tra i vicoli acciottolati di Gubbio, pendenti come il Mortirolo ma ricchi di storie e di umanità varie. Ripenseranno a quel giovane padre con famiglia al seguito, incrociato in albergo e ritrovato sugli spalti del “Barbetti” con in braccio un piccolo, piccolissimo giallorosso che sarà un grande tifoso di domani.

Racconteranno ancora delle forchette e dei calici incrociati nelle notti eugubine perché slowfoodball non è solo una rubrica o un neologismo anglofono, ma un modo di pensare e vivere il pallone oltre i 90 minuti. Magari non ricorderanno nemmeno il risultato della partita di ieri. Ma forse sorrideranno ripensando agli sbalzi d’umore: da un lato la nostalgia di essere arrivati all’ultima puntata del romanzo calcistico di questa stagione, dall’altro l’euforica certezza che ad agosto si ripartirà dalle amichevoli e dalla Coppa Italia.

Forse è passione, forse una malattia. L’unica da cui non vogliamo guarire.

 

Ivan Pugliese

@naracauliz

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Ivan Pugliese

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