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Nel giorno della memoria la storia di Arpad

Scritto da Redazione
Oggi si commemorano le vittime dell’Olocausto. Allo stadio Meazza di Milano una targa ricorderà Arpad Weisz, l’allenatore deportato a cui Puntonet aveva reso omaggio quasi due anni fa
Il 27 Gennaio è internazionalmente riconosciuto come il Giorno della memoria. Sessantasette anni fa le truppe sovietiche sfondavano i cancelli di Auschwitz e l’umanità cominciava a intuire la dimensione di uno dei più incomprensibili e spietati crimini che la mente umana abbia potuto concepire. Tra le tante iniziative pensate per combattere la “dimenticanza” c’è quella dell’Internazionale di Milano che al Meazza apporrà una targa in memoria di Arpad Weisz. Chi era Arpad? Ce lo ha raccontato a suo modo Fabrizio Scarfone in un pezzo per la rubrica “Invasione di Campo” pubblicato quasi due anni fa. Ve lo riproponiamo, sarà questo il nostro esercizio di memoria.
Red

Questo pezzo ha bisogno di una premessa. E di un accordo. Un patto che veda me da una parte e voi dall’altra. La storia che segue non può essere raccontata e letta in modo ordinario. È una storia che non sopporta la superficialità, perché in essa non c’è nulla di superficiale. La narrazione è svolta in prima persona, e si basa dunque su una finzione. La tecnica regge solo se la finzione regge. Non lasciate che vi sfugga, questa storia. Ricordate il nome del suo protagonista, troppo a lungo inghiottito dal buco più nero che l’umanità abbia mai prodotto; evocate la bellezza delle imprese compiute e rammentate l’atroce sconfitta imposta dentro un campo senza spalti né pallone.Un campo con una porta famosa in tutto il mondo e troppe reti piazzate intorno. Tutte ugualmente elettrificate. Fermatevi per qualche minuto su questa pagina. Concedete a questa storia l’esclusiva di una frazione del vostro tempo. Dicono che la scrittura a certe condizioni abbia il potere di evocare il passato, e con esso i suoi fantasmi. Se siete d’accordo, possiamo cominciare.


Il mio nome, se qualcosa ancora conta, è Arpad Weisz
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Sono stato un’ala sinistra, poi ho smesso per sempre. La cosa che mi riusciva meglio era correre verso la porta avversaria con il pallone tra i piedi. La differenza tra un’ala di talento e un corridore applicato al calcio, se ci pensate, è tutta in quel pallone che si attacca agli scarpini. Non per sempre, ma fin quando serve.
Io avevo il mio sinistro. Il destro è venuto dopo. Partorito con dolore sotto il peso di allenamenti quotidiani con il pallone e un grosso muro grigio a farmi da compagno.
Sono nato in Ungheria nel 1896.
A quei tempi la nostra era una delle scuole di calcio più importanti. In tutti i campionati d’Europa c’era almeno un’atleta ungherese a farla da padrone. Nella nazionale olimpica del 1924 per esempio, facevo coppia con “la Gazzella” Férénc Hirzer, uno che con i suoi gol ha segnato l’immaginario di molte generazioni di tifosi Juventini.
Anch’io ho giocato nel vostro Paese. Prima nel Padova, poi nell’Inter. Quattro gol in totale. Ma non era certo il gol il mio mestiere.
Avevo 30 anni quando la mia carriera è terminata per infortunio, ho smesso di giocare indossando la maglia bianca crociata dell’Ambrosiana. Scontro, dolore, medico, fine. Tutta una vita da giocatore  risolta in poche ore.
Ma io ho continuato ad amarlo, il calcio. Anche quando me ne stavo a terra, sopra il campo spelacchiato, con la gamba stretta tra le mani. Così, nuovamente in piedi, dopo quel destro così poco dotato, pensai che fosse arrivato il momento di allenare la testa. Avevo preso la mia pacifica “decisione irrevocabile”: le idee sarebbero state l’espressione più sincera del mio talento. Sarei diventato un allenatore di calcio.
Lo stesso anno del ritiro – era il 1926 – dopo l’esperienza da vice nell’Alessandria, passai dritto all’Ambrosiana. Erano tempi complicati, per il calcio e per il mondo.
Intorno a me le moltitudini sostenevano sempre un uomo solo, che spesso se ne stava cupo e arrabbiato sopra un palco, o magari affacciato ad un balcone. Molti erano felici, ma di una felicità che mi pareva tossica. Altri tremavano al solo pensiero del giorno successivo.
Io avevo il calcio e i miei schemi. Lavoravo per portare in Italia il sistema di Chapman, faticavo per migliorare quel “WM”, volevo battere i maestri d’Inghilterra.  Scrissi anche un manuale del gioco, e Vittorio Pozzo, che qualche tempo dopo fu campione del mondo per due volte con la nazionale italiana, pensò che fosse cosa giusta firmare una lunga introduzione. Ne fui così orgoglioso che corsi da Elena, mia moglie, per raccontarle tutto.

Credo di aver parlato per un giorno intero.
Ho imparato molto presto che nel calcio il tempo gioca contro le idee. Più tempo passa, meno efficace diventa una tattica. Colpa delle “contromisure” che tutti prima o dopo sperimentano. Allora capii come una buona tattica non fosse sufficiente, per vincere serviva altro.
Primo fra tutti portai le mie squadre in ritiro. Alle terme soprattutto, perché le ho sempre adorate. Fui anche il primo a chiedere che un giardiniere si occupasse ogni giorno dell’erba sui campi d’allenamento. Fui il primo ad assumere un medico che curasse la dieta dei miei calciatori e  ancora il primo a correre con loro in calzoni corti, mentre gli altri allenatori al campo se ne stavano in giacca e cravatta. Non ero un genio, non ero un mago. Amavo il mio mestiere.
Le vittorie arrivarono presto, e così i pareggi e le sconfitte. A Milano mandai in campo Giuseppe Meazza, un fenomeno dal cervello svelto quanto le gambe. Conquistai tre scudetti: due con l’Ambrosiana, uno con il Bologna. E fu proprio con i rossoblu che si avverò il mio sogno.
Era il 1937. Era la Coppa dell’Esposizione, il trofeo per club più importante del mondo. Era Parigi. Vincemmo contro gli inglesi del Chelsea, e non ci fu scampo per loro. Finalmente battemmo i maestri.
Il campionato,  la coppa, mia moglie Elena, Roberto e Clara (i miei figli), non ci fu anno migliore di quello. Forse fu per una strana compensazione che accadde tutto il resto. Gli anni peggiori infatti, cominciarono immediatamente dopo.
Iniziò tutto con una vittoria sulla Lazio, nell’Ottobre del 1938. In ossequio alle leggi razziali, a campionato in corso, il Bologna decise di licenziarmi. Mentre Silvio Piola continuava a segnare, a me venne ricordato di essere ebreo. Quasi me n’ero dimenticato. Dopo gli anni da calciatore, pensavo di essere soltanto un allenatore; magari un marito, un padre. Al mio posto fu chiamato un austriaco che vinse lo scudetto. Sui giornali un paio di righe. Un ebreo non meritava molto di più.
Mia moglie piangeva a ogni ora. Le voci sui vagoni piombati, sulle strane sparizioni degli ebrei dalle città e sui lager in giro per l’Europa correvano in fretta. Così fuggimmo da Bologna prima che il cerchio si stringesse troppo. Arrivammo in Francia, poi ripartimmo per l’Olanda. Lì un’altra illusione a forma di sfera: il Dordrecht. Una squadra di dilettanti. Vincemmo  molto per due anni, dal ’38 al ‘40; battemmo anche il grande Feyenoord.
Continuavo ad amarlo, il calcio.
Nel ’40 un altro allontanamento, l’ultimo. Ero ebreo, di nuovo. E dovevo portare una stella gialla sopra il cappotto, nel caso qualcuno non lo sapesse. Prima di salire sul treno per Auschwitz andai a spiare un’ultima volta la mia squadra olandese. Lo feci da una fessura della recinzione di legno che circondava il campo di calcio.
Avevo smesso di essere ogni cosa. Ero soltanto ebreo. Eppure pensavo ancora a come i tre difensori potessero impostare l’azione senza scavalcare il centrocampo.
A 12 anni mio figlio Roberto non aveva ancora giocato a pallone. A 8 anni mia figlia Clara non sapeva nulla della vita. Mia moglie morì con loro, uccisa dentro una camera a gas. Era il 1942.
Non erano utili al campo di lavoro. Io smisi di esistere il 31 gennaio del’44. “Smisi di esistere”, perché la morte è un’altra cosa, quella era arrivata due anni prima.

Il mio nome, se qualcosa ancora conta, è Arpad Weisz.
Sono stato un’ala sinistra, un allenatore di calcio, un marito, un padre, un uomo. Poi ho smesso per sempre.

Fabrizio Scarfone

 f.scarfone@uscatanzaro.net

 
 

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