Serie Bevute per Atalanta – Catanzaro

La mitica rubrica di Nicolò Ditta

Secondo itinerario del vino per il prossimo incontro dei giallorossi. Andiamo giù, nel profondo nord in quel di Bergamo.
L’aggettivo per descrivere il bergamasco è: “gran lavoratore”. Una persona forse un po’ chiusa e introversa, ma una persona che persegue con tutte le sue forze il traguardo, l’obiettivo che si è prefisso e cerca di raggiungerlo in tutti i modi e con tutte le sue forze.
Una persona taciturna e tenace che non si accontenta, una volta raggiunto un traguardo, ne cerca sempre uno successivo.

Tempo fa mi dissero dei bergamaschi che l’unico loro intento era quello di lavorare per mettere da parte soldi per comprarsi l’idromassaggio o la macchina bella o il vestito o il gioiello. Tutto il loro lavoro era finalizzato ad acquistare oggetti da mostrare come “vanto” agli amici.
Non so se questo sia vero perché non ho conosciuto direttamente dei bergamaschi, ma di sicuro la tenacia non gli manca.
Ed è proprio da qui, dalla loro enorme forza di volontà, che dobbiamo partire per capire i loro vini e il rapporto degli orobici con il prodotto della loro terra.

Un merito a chi, negli anni settanta, e in pieno Boom economico del paese, di fronte a una continua fuga dalle campagne verso la più remunerativa e meno faticosa industria stava per far scomparire il loro vino più conosciuto.
L’inversione di tendenza in quel caso è partito dal “basso”, ovvero dalla cantina sociale che ha cercato di rivalutare il vino più diffuso della zona valorizzandone i pregi e correggendo i difetti.
In questo si vede l’animo e la tenacia di chi si rimbocca le maniche e, lavorando sodo e in silenzio, salva la propria creatura.
In quest’ottica dobbiamo vedere le sperimentazioni fatte con vitigni internazionali in luogo degli autoctoni, e di corretto bilanciamento degli uni e degli altri.
Forse non vedremo mai un Valcalepio rosso prendere i 99/100 di “Wine Spectator”, ma di sicuro l’effige del Colleoni (condottiero Bergamasco), che campeggia sulle bottiglie è il simbolo della rinascita di quel vino, ed è per loro il premio più grande. E per me un risultato del genere vale molto di più di tante medaglie.

Il Valcalepio prevede, così come prescrive il disciplinare, due tipologie: il Bianco e il Rosso.
I vitigni in questo caso sono internazionali: Merlot e Cabernet per il Rosso, Pinot Bianco e Pinot Grigio per il bianco.
In un secondo momento si è inserita una terza tipologia, ovvero la “riserva” che solitamente denota i vini che subiscono un invecchiamento più lungo di quello normalmente fatto dal vino “base”.
Infine si è aggiunta una quarta tipologia che è il Valcalepio Moscato Passito ottenuto da uve Moscato di Scanzo.

Piccola notazione sui termini. Se il vino è fatto da uve di una sola qualità allora si parla di “vitigno” cioè un vino che deriva da un solo vitigno. Se il vino è fatto da uve di due o più qualità, allora si parla di “uvaggio” cioè assemblaggio di uve in percentuali diverse. Chiusa parentesi.

Riguardo l’invecchiamento, il vino subisce due processi: l’invecchiamento che normalmente si fa in botti di legno (le tanto famigerate Barriques e le altre), e si parla di affinamento quando il vino dopo aver maturato in botte di legno, passa un periodo di tempo in bottiglia prima di essere messo in commercio.
Normalmente per la versione riserva si richiede non solo un invecchiamento maggiore, ma anche un grado alcolico maggiore.
Il vino che ci aspettiamo di trovare nel bicchiere, per la versione rossa è un vino che non ha un grandissimo corpo, ma mediamente delicato, una acidità abbastanza contenuta ma che si fa sentire, e un naso molto fresco e fruttato con tipiche note di ciliegia e marasca.

Il bianco prende le caratteristiche dai vitigni che lo compongono e sarà di un colore giallo paglierino con tenui riflessi che tendono al verde oro. Un profumo fine e delicato che ricorda la mela golden e delicati fiori di glicine. Tutti sentori che ci danno l’idea di un vino che non ha grandissima acidità, molta morbidezza e una bella rotondità.
Attenzione a non confondere “morbidezza” con “dolcezza” e “dolcezza dei profumi”.

Un vino è Secco: Se non si percepisce la sensazione di dolcezza. Si tratta di vini con residui zuccherini compresi tra 1-5 g/l, quantità che, al più, può concorrere a determinare una certa “morbidezza” (vedi sotto ndr).

Abboccato: si percepisce una leggerissima sensazione di dolcezza. Sono i vini che contengono da 10 a 20 g/l di zuccheri residui.

Amabile: si percepisce chiaramente la sensazione di dolcezza, anche se non è predominante. Sono i vini che contengono da 20 a 50 g/l di zuccheri residui.

Dolce: predomina la sensazione di dolcezza. Può contenere da 50 a 100 g/l di zuccheri residui, come si verifica nei vini dolci frizzanti naturali da dessert, come il Moscato d’Asti, il Brachetto d’Acqui e altri o, addirittura, da 100 a 160 g/l di zuccheri residui, come avviene in quelli passiti o liquorosi.

La “dolcezza dei profumi” è invece una sensazione che si prova odorando il vino. Significa solamente che i profumi sono delicati, non aggressivi o pungenti. Un tipico esempio è il vino novello che ha un’estrema morbidezza di profumi.

La morbidezza di un vino è la sensazione che dà un vino che non ha asperità in bocca, ovvero che bevendolo non si ha la sensazione che sia “duro o acido o tannico”, anche in questo caso torniamo al novello e al suo essere estremamente pastoso, dolce e suadente. Certamente non mi riferisco a un grande Barolo che DEVE essere estremamente tannico per essere un “vero” Barolo.

Se anche vi avessi annoiato, mi farò perdonare offrendovi un bel Bicchiere di vino, meglio, di Valcalepio, e magari un bel piatto fumante di polenta taragna.
In alto i calici e buona Serie Bevute

Nicolò Ditta

PS per informazioni, critiche, suggerimenti o richieste, tranne soldi o bottiglie di vino, scrivetemi pure a uctrapani@uscatanzaro.net

Autore

Tony Marchese

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